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Da La Repubblica del 22.03.2000 - Spettacoli pag. 49

Salome e la danza delle sette nane
Al Comunale di Bologna delude l'opera di Strauss
di MICHELANGELO ZURLETTI

BOLOGNA - Questa Salome l'avevamo vista sedici anni fa a Reggio Emilia. Pierluigi Pizzi vi coglieva uno dei suoi spettacoli più intriganti. Un grande globo bianco occupa la scena e intorno corrono anelli neri in vertiginoso declivio. Sopra c'è una terribile luna di bronzo. Bulbo oculare di una tragedia di ossessioni visive o pianeta sperduto di una passionalità disumana che sia, la scena coglie alcuni aspetti essenziali dell'opera di Strauss-Wilde: il desiderio che si alimenta con la visione, l'enormità di quel desiderio e la perniciosità di quel mondo disumano dove nessuno è certo di potersi reggere in piedi, ossia l'attrazione dell'abisso. Non coglie invece e anzi trascura l'estetismo dell'opera, l'irripetibile decadenza della partitura che all'inizio del Novecento trasformava Wagner in Beardsley. Ma questa decadenza l'abbiamo vista altre volte, una volta tanto possiamo farne a meno. Pizzi toglie tutto ciò che nella sua visione astratta e tagliente non c'entra, suppellettili e arredi, piante, gioielli e persino esseri umani, accontentandosi degli indispensabili soldati. E va benissimo, ci concentriamo anche noi sull'allucinante storia di perversione. Ci toglie anche, però, e non per colpa sua, la danza dei sette veli che, grazie all'indisponibilità al moto della protagonista si trasforma in una passeggiata di sette nane: sette bambine che nell'inerzia coreografica di Luca Veggetti si assumono la responsabilità di agitare un velo. Questa scena, il momento meno luminoso della partitura, e lunghissimo, è sempre difficile per gli allestimenti, ma un'assenza così clamorosa di idee coreografiche non l'avevamo mai vista.
Musicalmente Daniele Gatti dimostra la sua estraneità al mondo di Strauss. Va bene che si tratta di una partitura a tratti infuocata ma farne tutta una fornace ardente è fare troppo. Oltretutto la copertura delle voci è assicurata. E se Pizzi obbliga il profeta e la bambinaccia a cantare sulla sommità del bulbo oculare, ossia da lontano, questa dovrebbe essere una ragione in più per alleggerire. E l'orchestra, che suona a cottimo di decibel, appare più preoccupata di aderire al furore fonico che a cercare la bellezza del suono e si concede grumi sonori abbastanza volgari. D'accordo che è una partitura difficile, e non si contano imprecisioni sostanziali, ma è anche elegante, luminosa e straordinariamente inventiva negli impasti timbrici: caratteristiche qui non individuabili. Anche il canto non è molto avvincente. Alla protagonista Susan Anthony possiamo concedere l' onore dell'eroismo per essersi immolata in un ruolo così duro ma dobbiamo anche rilevare la durezza di molti suoni e l'incertezza dell'intonazione (e se un soprano ha così scarsa attitudine scenica può sempre orientarsi su altri ruoli: e sono infiniti). Neppure Chris Merritt appare convincente come Erode, più vicino all'isteria del necessario, con quel continuo piccarsi con la mediocre Erodiade di Julia Juon a suon di schiamazzi da pollaio. Hans Joachim Ketelsen è un buon Jochanaan, Matthias Klink un eccellente Narraboth. Qualche contestazione al direttore, applausi per tutti gli altri.

Ultimo aggiornamento effettuato il 08-gen-2008

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